"Date al dolore la parola; il dolore che
non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi”
William Shakespeare
Ci sono forme malsane “d’amore” che lentamente finiscono per corrodere
cuore e anima di chi ne è vittima spesso inconsapevole. L’ingenua innocenza infantile che dapprima si affida, cede il posto
al doloroso e solitario stato di dubbio di essere stati depredati. Quando i
frammentati ricordi di esperienze drammatiche cominciano a emergere, la
coscienza tenta di difendersene provando a negare la veridicità di quelle
immagini, flashback o sensazioni così terribilmente vivide. Il dubbio diventa
quel temporaneo limbo in cui la mente si rifugia senza tuttavia trovare pace. Il
sospetto che quei vaghi ricordi timidamente affacciati alla coscienza celino
qualcos’altro di più penoso, spaventa e disorienta. Autorizzarsi a riconoscere come
espressione di violenza e non di affetto quei gesti che invadono l’intimità
profanandola, significa essere disposti ad assegnare valenza reale al danno subìto
e fare i conti con esso, affrontandolo senza scapparne negandolo. Spesso, la
presa di coscienza di essere stati
vittime di abuso non è sufficiente per indurre alla condivisione dell’angoscia che attanaglia e pervade chi lo ha subito. Il senso di
colpa, la vergogna, possono infatti inibire l’esternazione dell’indicibile segreto.
Con le parole di Judith
Herman, professoressa
associata di Psichiatria alla Facoltà di Medicina dell'Università di Harvard ,
la quale si occupa di vittime di violenza: “ Le atrocità rifiutano di
farsi seppellire. Tanto è forte il desiderio di negarle quanto lo è la
convinzione che negarle non ci aiuterà. Le storie popolari sono piene di
fantasmi che rifiutano di restare sepolti nella tomba fintanto che la loro
avventura umana non sia stata raccontata.”
Nel pluripremiato cortometraggio, scritto e diretto da Paolo Genovese e Luca Miniero nel 1999 : “Piccole cose di valore non quantificabile” (di cui sotto), la protagonista riesce a
dar voce, sebbene “utilizzando un linguaggio
sibillino”, al suo grande dolore e denunciare il furto interiore di
tutti i suoi sogni. Il
brigadiere che, in una calda notte d’estate romana, raccoglie la deposizione di “Boitani
Francesca”, benché non manchi di cortesia e attenzione verso le dichiarazioni
di quest’ultima, sembra apparentemente tradurle in dati rigorosamente oggettivabili
e quantificabili. Ligio al dovere,
ascolta e redige il verbale, battendo i tasti della macchina da scrivere, il cui suono rompe il denso silenzio tra l’alternanza dei
loro turni di parola. Il brigadiere non sembra assegnare valore alla comunicazione non
verbale di Francesca, al nervosismo espresso dalle sue movenze, alla sua gestualità e a tutto ciò che vada al di là delle parole e del racconto della donna stessa. L’umorismo,
che colora la prima parte della pellicola, rende tragicomico e vagamente
surreale ciò che accade nell’ufficio del commissariato. Ciò che appare comico
è il ricorso, da parte di entrambi i personaggi, ad
un differente registro linguistico per riferirsi ad uno stesso oggetto: la
ragazza adotta un linguaggio figurato, metaforico, emotivo, quasi poetico, il
brigadiere, uno che gli si oppone in quanto spogliato all’essenziale, un
linguaggio letterale, concreto, rigorosamente asciutto, tecnico, univocamente
interpretabile. Questi due differenti piani comunicativi non paiono agevolare la piena comprensione, da
parte del brigadiere, del vero oggetto
di denuncia che non trova espressione se non in quell’unico modo velato che solo
sottende l’indicibile, ovvero ciò che non trova la forza per essere apertamente
dichiarato. Ma l’incomprensione del brigadiere è solo apparente. Egli si mostra
infatti accogliente ed empatico con la donna; nessun dubbio pare mai attraversalo
rispetto alla veridicità dei contenuti esposti, né mai traccia di biasimo è possibile cogliere in lui neanche quando le
domanda come mai non abbia sporto
denuncia prima. Anche nell’invito ad esprimere “con calma” ciò che le è accaduto, si percepisce una sensibile disposizione
a prendesi cura di quella donna ferita sedutagli davanti. Dopo un ultimo
tentativo fallito di pervenire ad una maggiore chiarezza circa la dinamica dei
gravi fatti di cui è stata vittima, alla quale la donna risponde: “cerchi di capirmi, io non posso dirle come
sono andate le cose …”, il brigadiere si arrende. L’evidente e invalicabile limite oltre il quale le è faticoso spingersi
lo induce a scegliere di non sottoporla ad un’ulteriore violenza. L’uomo
infatti posiziona un altro foglio nella macchina da scrivere e battendo velocemente
i suoi tasti si rivolge alla
protagonista con queste parole: “adesso
rilegga la sua deposizione e metta una firma in calce, legga attentamente, sa
una volta firmato, il verbale è come se l’avesse scritto lei stessa … ”.
Il colpo di scena finale è evidentemente inaspettato, coglie impreparati noi spettatori
lasciandoci basiti, quasi avessimo ricevuto
una secchiata d’acqua sul viso; ci commuove per l’acuto spirito di
osservazione alla comunicazione non verbale che il brigadiere, solo nell’atto finale,
mostra di possedere. Tutte le informazioni, come quel trasalimento che ha
indotto la donna a richiedere un bicchiere d’acqua erano state abilmente e
sorprendentemente colte dal brigadiere. L’effetto sorpresa, incanta noi e la stessa protagonista. Solo in quel momento si riesce a cogliere a pieno lo
spessore del corto e la competenza e delicatezza nell’accogliere e intuire il lirismo
sotteso di quelle “piccole cose di valore non quantificabile” che il canale verbale esplicitamente
non esprime. Francesca supera le barriere della vergogna, rompe il silenzio e
denuncia ogni forma di maltrattamento subìto per 10 anni, liberandosi di quel
grosso peso.
…Ma denunciare non basta.
Cercare un risarcimento nel
sistema giudiziario per le atrocità
subite è una strada che la vittima può scegliere di percorrere ma da sola non conduce alla
guarigione dal trauma vissuto. La strada verso la guarigione richiede un coraggioso
investimento in un trattamento psicoterapeutico individuale e di gruppo.
Riporto una bellissima frase di Judith L. Herman a conclusione di
questo articolo: “Sebbene il
paziente non sia responsabile per le
ingiurie subite, egli è tuttavia responsabile della propria guarigione […]
L’unico modo in cui si può prendere il completo controllo della propria guarigione
è quello di assumersene la responsabilità e l’unico modo in cui si possono
scoprire le proprie forze non distrutte è quello di usarle pienamente.”
Dott.ssa Moira Melis
Bibliografia
Judith Lewis Herman,
Guarire dal trauma, Edizioni
Scientifiche Ma.Gi, Roma, 2005