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venerdì 3 gennaio 2014

SEPTIMUS WARREN SMITH: un caso letterario di Disturbo post-traumatico da stress

“Ora stavan parlando di quel Progetto di Legge. E Sir William stava accennando, sottovoce, a un recente caso clinico. Aveva a che fare con la sua teoria relativa ai postumi, agli effetti ritardati dei traumi di guerra. La legge in gestazione doveva tenerne conto.” (Woolf, 1925, p. 165)
Il caso clinico in questione è quello di Septimus Warren Smith, un uomo sui trent’anni, reduce di guerra, personaggio descritto da Virginia Woolf nel romanzo Mrs Dalloway nel 1925.
Dunque, sebbene gli effetti devastanti dell’esposizione prolungata al combattimento fossero evidenti già alla fine della I Guerra Mondiale quando i soldati tornavano dal fronte incapaci ad affrontare la vita perché muti, perseguitati dagli incubi, spesso deformati da paralisi fisiche di origine psicologica o con sintomi apertamente psicotici come nel caso del personaggio di Septimus, bisogna attendere fino al 1980 perché il trauma psichico ottenga il riconoscimento diagnostico di Sindrome post-traumantica da stress.
La ragione è da ricercare nella dissociazione collettiva davanti al trauma, una presa di distanza dall’indicibile che causa paralisi, incredulità e scetticismo di fronte al carico di sofferenza, orrore e impotenza che il trauma porta inevitabilmente con sé.
Septimus appare pallido in viso, con “occhi nocciola pieni di quella sorta di apprensione che rende apprensivi anche gli estranei” (Woolf, 1925, p. 32), a dire della pericolosità del contagio del trauma e quindi della necessità di difendersene attraverso la negazione e la presa di distanza. “Il dottor Holmes visitò Septimus. Non ha assolutamente niente, sentenziò alla fine. ...Grande e grosso, un bell’uomo dal colorito fresco, le scarpe lustre, guardandosi allo specchio, metteva tutto quanto in non-cale – le emicranie, l’insonnia, le paure, gli incubi – dicendo che eran sintomi nervosi e nulla più.” (Woolf, 1925, pp. 90, 91)

Una delle caratteristiche del trauma è quella di compromettere la capacità di sintesi della mente tra memoria emotiva e memoria cognitiva degli eventi. Herman così si esprime in merito: “la persona traumatizzata può esperire un’intensa emozione senza avere una chiara memoria dell’avvenimento, oppure ricordare ogni particolare senza emozionarsi” (Herman, 2011, p. 52)
Ed è ciò che accade a Septimus una volta tornato dal fronte: “La Guerra gli aveva insegnato molte cose. Era stata un’esperienza sublime. Lui ne aveva conosciuti i vari aspetti: amicizia, vita di trincea, morte; era stato promosso sul campo; non aveva compiuto ancora trent’anni; e sarebbe sopravvissuto. Né qui si sbagliava. Le ultime granate lo risparmiarono. Le guardava esplodere con indifferenza. Quando venne la pace, lui si trovava a Milano, alloggiato nella casa di un trattore, con un cortile, fiori in mastelle, tavolini all’aperto, le figlie che confezionavano cappelli, e con Lucrezia, la più giovane delle figlie, lui si fidanzò una sera in cui era stato colto dal terrore – di non riuscir a provare nulla.” (Woolf, 1925, p. 87)
Pur tornando al quotidiano della vita precedente, il sistema percettivo della persona traumatizzata continua a distorcere il senso di realtà e a separare gli eventi sperimentati dal loro significato consueto tanto da causare pesanti limitazioni e restrizioni nella sfera personale e sociale. Succede così che un momento di condivisione di Septimus con la moglie diventa invece la conferma della profonda solitudine in cui pare sprofondare. “”Bellissima!”, esclamava in un soffio, dando di gomito a Septimus, perché l’ammirasse. Ma la bellezza stava al di là di una lastra di vetro. Persino le cose golose (a Lucrezia piacevano i gelati, la cioccolata, i dolciumi in genere) non avevano gusto per lui. Deponeva la tazzina sul tavolinetto di marmo. Guardava i passanti, là fuori: felici, sembravano, assiepati in mezzo alla strada, a ridere, a gridare, a litigare per nonnulla. Ma lui non provava alcun gusto, non riusciva a sentire niente. Nella sala-da-té, fra i tavolini e i loquaci camerieri, quell’orrenda paura lo riprendeva: non provava alcuna sensazione.” (Woolf, 1925, p. 88)

Se l’obiettivo primario nella cura del post-traumatico è il riconoscimento dell’esistenza di un trauma irrisolto attraverso la comprensione dell’origine della sofferenza che la persona sta sperimentando, non meno importante appare la messa in sicurezza della vittima e il ripristino del senso di fiducia negli altri. Perché ciò avvenga è necessario che chi vive a contatto con il soggetto traumatizzato sia capace di tollerarne la fluttuazione continua tra i bisogni di vicinanza e di distanza. L’esito positivo di tale dialettica risiede sia nel contenimento della reattività negativa dei familiari relativamente all’ostilità e invadenza squalificante verso il paziente sia nella disponibilità della vittima di trauma a lasciarsi avvicinare e accettare con fiducia la disponibilità dei propri cari.
Da ricerche in merito è emerso come i veterani di guerra, di frequente, riferiscono di “difficoltà ad andare d’accordo con le proprie mogli e fidanzate o a sentirsi emotivamente vicino a qualcuno” (Herman, 2011, p. 89), questo perché, prosegue la Herman “il veterano è isolato non solo dall’orrore di cui è stato testimone e che ha perpetrato, ma anche dal suo status speciale di iniziato al culto della guerra; nella sua immaginazione nessun civile, e tanto meno nessuna donna o bambino, potrà comprendere come egli si sia trovato a confrontarsi con il male e la morte. Egli guarda a un civile con un misto di idealizzazione e disprezzo, considerandolo nello stesso tempo una persona innocente ma anche inconsapevole. Al contrario egli guarda a se stesso come a un essere superiore ma anche come a una persona contaminata: egli ha violato il tabù dell’omicidio e il marchio di Caino è impresso su di lui.” (Herman, 2011, p. 92)
Il trauma quindi causa una spaccatura nella continuità dell’esistenza tra un prima e un dopo sia individuale che collettiva. Ne è consapevole Lucrezia “Ché non ne poteva più. Aveva un bel dire, il dottor Holmes, che non c’era nulla di grave. Di gran lunga avrebbe preferito, lei, che Septimus fosse morto! Non ce la faceva più a stargli accanto, quando lui guardava fisso in quel modo, senza vederla, e rendeva terribile ogni cosa: cielo e alberi, bambini che giocano, che trascinano carrioli, che soffiano fischietti: tutto era terribile. … Lucrezia poteva mettersi il collarino di pizzo, poteva mettersi il cappellino nuovo, e lui non se n’accorgeva; era felice senza di lei. Niente invece poteva render lei felice, senza di lui. Niente!” (Woolf, 1925, p. 38)
Dal canto suo Septimus, che si sente vivere sull’orlo del baratro, incarna in sé il senso di abbandono e di mancanza di fiducia nel mondo proprio delle vittime di trauma. L’apice della sofferenza è rappresentato dalla convinzione di non poter più essere se stesso in relazione agli altri, quando il sé pare irreparabilmente danneggiato.
“All’ora del tè, Lucrezia gli disse un giorno che la figlia della signora Filmer aspettava un figlio. Non poteva, lei, invecchiare senza figli! Si sentiva molto sola, era molto infelice! Pianse, per la prima volta da quand’erano sposati. Da lontano, lui l’udì singhiozzare; la udiva distintamente, prendeva buona nota di ogni cosa; paragonava quei singhiozzi a un pistone che stantuffa. Però non provava niente, dentro di sé. Sua moglie piangeva, e lui non provava nulla; solo, ad ogni singhiozzo che le squarciava il petto in quel modo profondo, silenzioso, disperato, lui scendeva di un altro passo ancora entro il baratro.” (Woolf, 1925, p. 90)
Ciò nonostante, è ancora presente nella coppia Septimus-Lucrezia una resilienza di fondo che alimenta un’alleanza benefica tra i due fondata sulla capacità di lei di riconoscere, sapendo di poter fare affidamento su di essa, la parte sana di lui. Lo stimolo a non farsi sopraffare dall’angoscia gli deriva quindi dalla vicinanza di Lucrezia che si traduce in un mutuo sostegno reciproco. Una complicità intima che spesso sfugge agli spettatori esterni, tant’è che il misconoscimento da parte del mondo scientifico delle capacità di recupero dei sintomi dentro la relazione di coppia getta entrambi nello sconforto.
“Lui aprì cauto gli occhi, per vedere se davvero ci fosse un grammofono, nella stanza. Ma le cose reali … le cose reali eran troppo eccitanti. Doveva andarci cauto. Non voleva diventar matto. … si fece visiera con la mano in modo da vedere una parte soltanto del viso di Rezia alla volta, prima il mento, poi il naso, poi la fronte, casomai fosse deforme, o ci fosse qualche marchio orribile. Macché. Sedeva là, assolutamente naturale, intenta a cucire, con le labbra un po’ contratte, com’è di tante donne quando cuciono, e con un che di malinconico nell’espressione. No, no, non c’era niente di terribile, assicurò a se stesso, tornando a guardarla una seconda volta, una terza volta, in faccia, … “E’ troppo piccolo per la signora Peters”, disse Septimus. Per la prima volta, da chissà quanti giorni, ora parlava normalmente. Ma sì, certo, troppo piccolo – ella disse – assurdamente piccolo. Ma così lo voleva la Peters. Lui glielo tolse di mano. Era un cappello – disse – adatto alla scimmietta d’un suonatore d’organetto. Quanto la rese allegra, questa battuta! Da settimane non ridevano assieme, così, con quell’intesa – da marito a moglie. Cioè – voleva dire - se qualcuno fosse entrato all’improvviso, la Filmer o la Peters o chiunque, non l’avrebbero mica capito, di cos’è che ridessero, lei e Septimus” (Woolf, 1925, pp. 131, 132)
“Mai aveva provato Lucrezia un tale tormento, mai, in vita sua! Aveva chiesto aiuto ed era stata abbandonata. … Lei gli si aggrappò al braccio. Erano stati abbandonati.” (Woolf, 1925, p.97)
“Ma ricordò che Bradshaw aveva detto: “Le persone che ci stanno più a cuore non son buone, per noi, quando siamo malati”. Bradshaw gli aveva detto che doveva imparare a riposare. Gli aveva detto che doveva separarsi per un po’ da sua moglie. … Se l’avessero portato via – gli disse – lei sarebbe andata con lui. Non potevano – disse – separarli contro la loro volontà.” (Woolf, 1925, pp. 135, 136)
Sostenere la capacità naturale del sistema famiglia di ripartire a fronte dei cambiamenti apportati dal trauma pare quindi essere la via privilegiata per incamminarsi sulla strada della ripresa.
Gloria Invernizzi

Bibliografia
Herman Judith Lewis (1992), Guarire dal trauma. Affrontare le conseguenze della violenza, dall’abuso domestico al terrorismo, Roma, Ed. Magi, 2011
Selvini M., Sorrentino A.M., Gritti M.G., “Promuovere la resilienza “individuale-sistemica”: un modello a sei fasi.”, Numero Monografico Psicobiettivo, 2012
Woolf Virginia (1925), Mrs Dalloway, Roma, Biblioteca Economica Newton, 1997