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martedì 27 marzo 2012

IL POTERE DELLA NARRAZIONE

Per dare una forma conclusiva ai precedenti post sulla resilienza, potremmo soffermarci sulla potenza terapeutica che può avere anche un semplice racconto.
Negli ultimi anni sta diventando sempre più corposa l’idea che aiutare bambini o adulti a raccontare eventi traumatici del passato, quelli più recenti e vividi ma anche condizioni di vita più o meno stressanti, rappresenti un momento molto efficace nel processo di cura e nel sostegno psicologico. Alla narrazione viene attribuito un significato di strumento di conoscenza e di costruzione del Sé, mezzo grazie al quale riflettere e riorganizzare gli eventi della propria esistenza. Raccontando le nostre esperienze, noi ne comprendiamo il significato in relazione ad altri eventi della nostra vita e iniziamo a costruire una storia di vita organizzata sotto una forma narrativa. Questa storia di vita, a sua volta, contribuisce alla formazione di un senso del Sé nel corso del tempo.

La narrazione può essere vista come il compimento di un percorso. Raccontare in maniera integrata (emotiva e cognitiva) vuol dire anche completare l’elaborazione di un evento, di una crisi, di vicende personali difficili. Il raccontare a qualcuno di cui ci si fida permette di collegare insieme emozioni, pensieri e fatti accaduti agevolando la correzione di attribuzioni improprie e la possibilità di darsi una spiegazione. E’ un accettare la realtà e le emozioni ad essa associate, che diventano consce.


Quando un adulto riesce a realizzarsi, nonostante le ferite, allora potrà capire che, moltissimi anni prima, era un bambino resiliente. Per dare un senso ai fatti avvenuti, il passato deve essere interpretato alla luce del presente. E’ attraverso la consapevolezza di questi aspetti che il concetto di vulnerabilità, spesso allontanato e negato dalla società occidentale e dal momento storico in cui viviamo, non fa più così paura.


Dott.ssa Marta Villa

sabato 24 marzo 2012

CARL e ELLIE: 2°parte

Carl e Ellie: La storia di un incontro che ha saputo trasformarsi in legame generativo: il progetto condiviso è il filo rosso che si pone all'origine del loro legame di coppia e lo trascende...

Dott.ssa Moira Melis

lunedì 19 marzo 2012

a TU per TU con NOI stesse

Dopo gli incontri della Psicobiblioteca a Monza, le mamme hanno sentito nascere in loro il desiderio di continuare a confrontarsi e approfondire le tematiche dell'essere madre, donna, moglie, figlia.
Ecco quindi la nuova proposta:


Un’ora sola ti vorrei! 

a TU per TU con NOI stesse

3 Incontri di sostegno, confronto e relazione tra donne,
per custodire vivo lo spazio prezioso della propria intimità femminile, oltre i faticosi e attesi ruoli quotidiani.

Il mio corpo e le sue forme… trasformazioni ed emozioni… 
Bisogno e Desiderio – Cura e Intimità … 
Madre e Figlia di un’altra Madre … la storia continua...

“Essere donna è così affascinante. È un'avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esiste potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che chiede d'essere ascoltata.”

DOVE:
Presso la Studio di Psicologia Zetema, Via Ariosto, 10 Monza
CONDUTTRICI:
Dott.ssa L. Tresoldi 3387910028 Dott.ssa F. Cadeo 3460945270
QUANDO:
26/03/2012, 16/04/2012, 23/04/2012 dalle 10:00 alle 11:30

COSA CI RENDE UMANI RESILIENTI?

Tra le cose che ci rendono resilienti possiamo annoverare: la presenza di una relazione affettiva stabile con una persona della nostra famiglia o con chi, in sua assenza, se ne assume i compiti di cura; il supporto sociale ed un contesto educativo positivo; avere un modello positivo da seguire; alcune caratteristiche costituzionali di personalità, l’ottimismo per esempio; le esperienze che aumentano il senso di autostima, il senso di autoefficacia personale e infine la capacità che una persona ha di far fronte alle situazioni.

Questo porta a due riflessioni: la prima è che è necessario modificare la concezione di apparato psichico come quella di una struttura che si costituisce permanentemente e solo nel corso dei primi anni sensibili ma che si plasma a seconda degli ambienti affettivi e sociali e delle esperienze di vita. In secondo luogo è da modificare l’atteggiamento nei confronti della sofferenza psichica: non va negata perché esiste, è inevitabile e provoca dei danni, ma contemporaneamente non c’è motivo di rassegnarsi ad essa, in quanto è possibile trasformarla, come essa trasforma noi o sublimarla in varie forme d’arte.

E’ possibile diventare resilienti?

L’evento traumatico rischia di far richiudere la persona in una condizione di dolore e sofferenza, una condizione quasi paralizzante, che conseguentemente spesso causa azioni e comportamenti nocivi, altre volte diventa motore di un cambiamento possibile.

Non esistono mezzi o strumenti con cui costruire la resilienza, perché essa si sviluppa in relazione ad un contesto e a situazioni specifiche, ciò non esclude tuttavia la possibilità di definire alcune strategie e modalità per promuovere una riorganizzazione positiva della nostra vita. E’ un cammino da percorrere, spesso lungo, che si focalizza su alcune aree:

1. Assunzione di consapevolezza: capacità di identificare i problemi, le risorse e a ricercare soluzioni per sè e per gli altri ponendo attenzione ai segnali ricevuti dal contesto.

2. Indipendenza: che poggia sulla capacità di porre dei confini tra se stessi e le persone vicine, di prender le distanze da ciò che ci manipola e di interrompere relazioni negative.

3. Relazioni: lo sviluppo di relazioni soddisfacenti con gli altri, la capacità di scegliere degli interlocutori positivi.

4. L’iniziativa: permette di dominarsi e controllare il proprio ambiente di vita, trovando piacere nello svolgere attività costruttive.

5. La creatività: aiuta ad ampliare lo sguardo con cui osserviamo il mondo e i suoi esseri viventi, favorendo la possibilità di fuggire eventualmente in un nostro mondo immaginario che consente di prendere le distanze dalla sofferenza interiore e di esprimere le proprie emozioni.

6. L’humor: permette di diminuire la tensione e di scoprire e saper cogliere l’aspetto comico nonostante la tragedia.

7. L’etica: guida l’azione nelle scelte positive e negative, favorisce la
         compassione e la solidarietà.



Dott.ssa Marta Villa

lunedì 12 marzo 2012

NO ALL' INVULNERABILITA'!

Sul retro della copertina di “Cose che nessuno sa” di Alessandro d’Avenia ho letto:

"Quando un predatore entra nella conchiglia nel tentativo di divorarne il contenuto e non ci riesce, lascia dentro una parte di se che ferisce ed irrita la carne del mollusco, e l'ostrica si richiude e deve fare i conti con quel nemico, con l'estraneo. Allora il mollusco comincia a rilasciare attorno all'intruso strati di se stesso, come fossero lacrime: la madreperla. Ciò che all'inizio serviva a liberare e difendere la conchiglia da quel che la irritava e distruggeva, diventa ornamento, gioiello prezioso e inimitabile, così e la bellezza: nasconde delle storie, spesso dolorose. Ma solo le storie rendono le cose interessanti......"
Ho pensato che si trattasse di una storia di relilienza e scorrendo le pagine del romanzo ne ho avuto la conferma.

E' un concetto che si studia alla facoltà di psicologia, probabilmente anche durante il corso di studi di fisica, ma la maggior parte di noi lo impara vivendo.
Resilienza origina dal latino re-salio, che significa saltare, rimbalzare. Tale termine esiste nel campo della fisica a designare la capacità di un metallo di riprendere la propria forma dopo aver ricevuto un colpo non abbastanza forte da provocarne la frattura. Il  suo contrario potrebbe risiedere nella parola fragilità.

Non stiamo parlando di invulnerabilità, poiché essere invulnerabili significa essere esenti dal rischio di ferite e resistere all’urto ed è un concetto che porta con sé un’idea di rigidità e staticità. Tutto questo è molto lontano dalla flessibilità e dalla morbidezza necessarie alla resilienza.

Ma che cos’è la resilienza?

Secondo Michel Manciaux, Stefan Vanistendael, Jacques Lecomte e Boris Cyrulnik (2001):

“La resilenza è la capacità di una persona o di un gruppo, di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti, di condizioni di vita difficili, di traumi anche severi”

Non è una semplice capacità di sopravvivere, non è una propensione ad evitare rischi e pericoli, non è una spinta istintiva a mettersi in salvo. E’ molto di più. E’ insito in noi. Si tratta di un aspetto costitutivo della natura umana, di cui gli individui sono indistintamente dotati e  quindi presente in tutte le fasi del ciclo della vita, seppur non sempre attiva, che consente di usare le esperienze, anche negative, per riflettere e per riparare, per ricominciare a costruire e a realizzare progetti con forza e con energie interiori.

Pensare in termini di resilienza significa uscire da una prospettiva deterministica, secondo cui il destino di una persona è irrimediabilmente segnato dalle sue caratteristiche costitutive e dalle condizioni ambientali, socioculturali e familiari.

Dott.sa Marta Villa


domenica 11 marzo 2012

Basta lo sguardo

"Sono vostro cuore e anima!"

COME MAI TRA TANTE PERSONE VI SIETE SCELTI PROPRIO VOI DUE?


Vi siete mai domandati quali significati si celino dietro la scelta del vostro partner? Diverse le risposte che ognuno si da: c’è chi ritiene sia opera del Destino, chi pensa sia l’esito di una “pura  casualità”, chi sostiene di aver vissuto l’esperienza del “colpo di fulmine” o freccia di Cupido, chi, di contro, dichiara di aver scelto consapevolmente l’altro…e che questa scelta si sia saputa rinnovare nel corso del tempo. Ma se è pur vero che si sceglie e si viene a propria volta scelti non solo nel momento in cui si da avvio alla formazione della coppia, quanta parte di responsabilità si ha nel mantenere vivo e solido il legame con l’altro?...In altre parole, quanto ci sentiamo artefici delle nostre scelte?

  Le storie mitologiche infondono l’idea che l’innamoramento sorga all’improvviso ad opera di un divino arciere, spesso bendato, che, lanciando le sue frecce su “vittime” inconsapevoli, sappia infondere nei loro animi una straordinaria quanto dirompente esperienza emotivo-affettiva in cui la reciprocità sentimentale costituisce dono del destino che vale per sempre. Nella realtà la condivisione reciproca dei sentimenti non sempre segue il percorso a lieto fine che ci si auspica: si può solo sperare di venire  notati e scelti a propria volta e che tale scelta sappia rinnovarsi reciprocamente nel corso degli anni.
Se il punto di partenza nel processo di scelta è rappresentato dall’individuazione e selezione di un partner attraente cui segue la capacità di stabilire un contatto attraverso la messa in atto di opportune strategie di esibizione allo scopo di farsi notare e scegliere a sua volta, il passo successivo, nella danza del corteggiamento è dato dal reciproco avvicinamento. In questa fase cresce il livello di intimità, ci si racconta, si cominciano a condividere interessi, emozioni, convinzioni ma è con l’autorivelazione dei propri sentimenti che vengono abbattuti i muri che ancora si frappongono tra i due. Dichiararsi equivale ad esporsi al rischio di un rifiuto e solitamente lo si fa quando la probabilità che questa evenienza si realizzi risulti bassa.    
L’attrattiva, alla base della scelta del partner, pur necessaria per dare avvio alla formazione della coppia  non è tuttavia sufficiente per fondare un rapporto affettivo profondo, né a farlo durare nel tempo. Affinché  il rapporto di coppia si evolva e si consolidi lungo il corso di vita occorre arrivare ad accettare teneramente l’altro nei suoi limiti, e amarlo nella sua diversità-unicità di caratteristiche ed esigenze/bisogni. Riconosciuto e stimato per il suo valore. Riconfermato nel tempo.
Sincerità e autenticità verso sé stessi e verso l’altro sono caratteristiche tipiche delle relazioni amorose che hanno saputo attraversare la fase della idealizzazione reciproca e procedere oltre.
Il processo di idealizzazione  si pone all’origine della costituzione del legame con l’altro e rappresenta un elemento fondamentale  e utile alla coppia per la costruzione di un “noi”. L’altro diviene qualcuno su cui appoggiamo i nostri aspetti fragili e bisognosi, qualcuno che in certa misura  utilizziamo per sedare le nostre angosce, far fronte ai nostri bisogni,  per realizzare al meglio noi stessi. Lo scegliamo perché giunge nel momento opportuno e, almeno sul piano simbolico, ci appare idoneo a risolvere il nostro problema esistenziale. Alcuni autori sostengono che si tende a scegliere un compagno verso il quale il nostro sistema di attaccamento è già predisposto a dare risposta. Sembra dunque prevalere, in questa fase, un uso strumentale dell’altro percepito come una proiezione dei nostri bisogni. Il partner è persona altra da noi dotata di propri limiti, carenze, inadeguatezze oltre che egli stesso soggetto portatore di propri bisogni di conferma, sostegno. Solo a seguito dell’emergenza dell’altro in quanto tale sarà possibile riuscire ad affrontare la fase del disincantamento. E’ un passaggio critico quello che nelle relazioni intime conduce dall’innamoramento, in cui si coltiva l’idea illusoria di aver finalmente trovato il partner ideale,  all’amara  presa di coscienza, evidenziata dalla “prova dei fatti”, della sua imperfezione.  
Decisivo per la realizzazione dell’identità di coppia è la capacità di affrontare e superare positivamente questa sofferta transizione in cui ciascun membro della coppia sperimenta sentimenti di delusione accompagnata sovente da aggressività e/o ritiro affettivo.
La costruzione della relazione di coppia richiede dunque l’apporto della volontà di entrambi, uno sforzo congiunto verso ciò che merita dedizione. Solo se lo si vuole, se ci si  impegna con azioni concrete a  farla durare e a renderla stabile, la relazione si consolida e può garantire benessere.
Si può dire che se l’innamoramento consente l'incontro e l'intreccio di due storie, l’amore,  che ne raccoglie l'eredità è scelta reciproca e consapevole dell’altro. E’ desiderio di volersi congiuntamente  impegnare in un’impresa personale ad alto rischio: la costruzione della relazione, il cui esito è aperto all'imprevisto. Solo al termine dell’avventura di coppia è possibile rispondere alla domanda sulla  riuscita o meno di tale impresa, cioè sulla capacità della coppia di aver saputo fronteggiare il dolore nelle sue varie manifestazioni e rinnovare nel tempo la scelta del legame. Decidersi in favore della continuità nel tempo del legame rende visibile la portata dell’impegno che ci si vuole assumere e consente di far luce sul progetto che insieme si intende realizzare. Attraverso una esplicita dichiarazione di amore e di impegno definitivo, la coppia accetta la sfida e la responsabilità del progetto. L’impegno progettuale rappresenta il segno visibile che la relazione non è una sterile vicinanza di individui, ma una identità generativa, la risorsa fondamentale attraverso cui l’uomo e la donna superando i confini della propria coppia danno forma al tentativo di trascendere la propria prospettiva temporale e di darle un senso. 
Il venir meno dei presupposti affettivi  è attualmente diventato motivo sufficiente per mettere in discussione e/o addirittura sciogliere un’unione proprio perché prioritariamente su di essi si regge.
La coppia contemporanea sembra, da un punto di vista psichico retta dal solo polo affettivo della relazione risultando gravemente sbilanciata rispetto a quello etico, di vincolo reciproco. La relazione coniugale vive, infatti, di due dimensioni: una affettiva, caratterizzata dall’attrazione che ha saputo trasformarsi in affidamento dell’uno verso l’altro – si tratta di uno sfumato accordo di fiducia,  quello che due fidanzati si scambiano dopo essersi privatamente scelti - e una etica, in cui l’impegno che ci si vuole assumere con l’altro è consapevole ed  esplicitamente dichiarato attraverso un atto formale.
La fiducia e l'impegno devono poter confluire e bilanciarsi armoniosamente nel corso del ciclo di vita della coppia. La relazione priva di attrattiva fiduciosa diventa freddo contratto, di contro senza un patto dichiarato di impegno reciproco  per la vita, la fiducia diventa donazione di sé molto rischiosa perché affidata all’attualità  e alla transitorietà del sentimento. La forza delle coppie che sono riuscite in questa impresa psichica risiede nella capacità di aver saputo rinnovare il legame nel corso del tempo, sposare il proprio partner più volte nella vita.
Con le parole di Froma Walsh:“Piuttosto che scegliere nuovi partner le persone hanno bisogno di cambiare il contratto relazionale a seconda delle diverse fasi del ciclo di vita, dal momento che le cose necessarie per il soddisfacimento all’interno di un rapporto cambiano nel corso del tempo”.
Dott.ssa Moira Melis

giovedì 1 marzo 2012

COME FACCIO A PARLARE DELLA MORTE A MIO FIGLIO...CHE E' COSI' PICCOLO?


Come faccio a parlare della morte a mio figlio…che è così piccolo?
I bambini ci appaiono così spensierati, ma anche così fragili che non vorremmo mai rovinare la loro serenità parlando della morte.
Eppure, se ci pensiamo, è un evento naturale. Ogni essere vivente, per quanto semplice sia, ha un ciclo di vita: nasce, cresce, si riproduce, invecchia e muore. Inevitabilmente anche i bambini si scontrano con questo evento.
Bowlby aveva definito la morte come una perdita irreversibile, un’ inaccessibilità permanente e, in quanto tale, l’aveva considerata come un’estensione, un caso particolare ed estremo,  della Teoria della Separazione. L’evento della morte, infatti, provoca reazioni simili a quelle che emergono durante la separazione tra il bambino e la mamma: protesta, distacco e disperazione.
Come si può aiutare il bambino ad affrontare questo evento doloroso, ma naturale?
La prima cosa da fare è sicuramente lasciare al bambino la possibilità di accedere a questo evento e quindi non ingannarlo mai rispetto a quanto è accaduto. È importante fornire informazioni chiare, precise e concrete e rispondere ad ogni piccola domanda che il piccolo ci pone. È bene aiutarlo a capire che è lecito addolorarsi e che in questi momenti si può piangere ed essere tristi. Un altro elemento fondamentale da tenere sempre presente è che, come per noi adulti, anche per i bambini può essere d’aiuto dire addio alla persona che ci ha lasciato. Partecipare alla cerimonia funebre, ad esempio, permette al bambino di partecipare al dolore collettivo per la perdita e lo aiuta a dare un senso a quanto è accaduto.
A seconda dell’età, la morte è percepita dai bambini in modo diverso. Vediamone  brevemente le caratteristiche:
  • BAMBINI CON MENO DI 5 ANNI: a questa età la morte viene percepita come qualcosa di reversibile, per loro la persona morta è solo andata via, ma in futuro tornerà. A questa età c’è ancora la speranza del ritorno che è vissuta come rassicurante. Può essere che il bambino non manifesti  il suo dolore e ciò può sconvolgere i familiari che percepiscono questo come mancanza di sofferenza. In realtà dipende da una concezione della realtà ancora primitiva.
  • BAMBINI CON PIU’ DI 5 ANNI: dopo i 5 anni la morte viene percepita come irreversibile. I bambini quindi manifestano il loro dolore, ma non hanno la capacità di trovare da soli le risorse per affrontarlo e quindi hanno assolutamente bisogno di aiuto. Il loro pensiero operatorio concreto li porta a fare domande concrete appunto come “Chi dà da mangiare sottoterra?” oppure “Dove dorme?”. È importante mantenere sempre risposte che, nel rispetto delle credenze religiose, definiscano la differenza tra corpo e spirito. Può aiutare puntare l’attenzione sul ricordo della persona mancata
  • BAMBINI DOPO I 8-9 ANNI: a questa età i bambini hanno pensieri simili a quelli dell’adulto e quindi devono confrontarsi con due compiti. Il primo è quello di accettare la realtà della perdita e il secondo è quello di affrontare il dolore. In questi casi si parla di dolore depressivo in quanto il soggetto è consapevole della perdita di uno stato precedente che, soggettivamente, era ritenuto buono.
Un processo importate e protettivo verso una perdita è quello della elaborazione del lutto. E’ un processo mentale lungo e articolato che può avere molte oscillazioni. Elaborare vuol dire arrivare ad una consapevolezza cognitiva ed emotiva circa la perdita subita.  Perché questo accada è importante lasciar spazio alle domande del bambino e rispondere ad esse realisticamente.
Spesso è più una difficoltà dell’adulto affrontare questo tema, ma come adulti abbiamo la responsabilità dei più piccoli e non possiamo sottrarci a questo faticoso e doloroso compito.
Dott.ssa Laura Prada